sabato 30 gennaio 2021

IL SISTEMA: STORIA SEGRETA DELLA MAGISTRATURA ITALIANA (2)

 

(tratto dal capitolo "La Repubblica del Sud - La piazza di Ingroia, il rebus Di Matteo" da il libro "il sistema" di Alessandro Sallusti e Luca Palamara, pag. 102 - Ed. Rizzoli)

L'estratto di "Cane non morde cane - la marcia su Roma di Pignatone" disponibile a questo LINK 

 

 

 Due anni dopo Di Matteo ci riprova.
E questa volta, siamo nel 2017, le correnti si accordano per dargli il via libera. Fu una delle rare volte che al Csm ci facemmo condizionare dalla grancassa mediatica. Nessuno di noi era in cuor suo convinto, ma bocciare per la seconda volta il magistrato paladino dell’antimafia sarebbe stata una decisione troppo impopolare. Sapevamo che saremmo andati incontro ad altri problemi, che infatti puntualmente si presentarono.


Di che problemi parliamo?
La nomina di Di Matteo alla Direzione antimafia è in concomitanza con quella di Cafiero De Raho – di cui abbiamo già detto – alla procura generale antimafia. De Raho riorganizza il lavoro costituendo nuovi pool investigativi, nella speranza di superare le conflittualità e le sovrapposizioni tra il centro e la periferia, dovute perlopiù a invidie e gelosie, generate dal metodo di lavoro in vigore. Di Matteo viene assegnato al «gruppo stragi», ma dura poco. Il 20 maggio 2019, ospite ad Atlantide, la trasmissione di Andrea Purgatori su La7, Di Matteo sostiene, parlando della strage di Capaci in cui morirono Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti della sua scorta, che «è altamente probabile che insieme a uomini di Cosa Nostra abbiano partecipato alla strage anche uomini estranei a Cosa Nostra». Cafiero De Raho, che di suo non è un cuor di leone, lo rimuove su due piedi da tutti gli incarichi.

Chi può aver chiesto la testa di Di Matteo?
Al Quirinale da quattro anni non c’è più Napolitano, che di quel complottismo si sentiva vittima, bensì Mattarella. Ma il clima di cautela e
scetticismo nei confronti di certe tesi non è cambiato, come perplessa è una larga parte della magistratura, e sul mio telefono ce n’è ampia traccia. «Di Matteo è incredibile» mi messaggia Francesco Cananzi, segretario di Unicost e componente del Csm, la sera di una delle sue esternazioni in tv. Io, quando vengo a sapere della rimozione, scrivo a De Raho: «Grande Federico», intendendo che aveva dimostrato di avere gli attributi. Il clima è tale che anche il Csm apre una pratica per le dichiarazioni di Di Matteo.

 

Procedimento chiuso il 20 ottobre del 2020 con un nulla di fatto, per un ripensamento di De Raho proprio sull’onda del caso Palamara. In una lettera al Csm De Raho scrive che revoca la sospensione di Di Matteo «per evitare aggravi procedurali e decisionali in un momento particolarmente delicato per l’immagine della magistratura».
Come sarebbe interessante sapere come si è determinata, in un senso e nell’altro, la sospensione di Di Matteo, altrettanto lo sarebbe conoscere il nome che gli ha consigliato la revoca. Escludo che si tratti di farina del suo sacco.

Secondo lei chi sono oggi gli amici di Di Matteo?
Nella magistratura lo è stato Davigo e oggi lo è Ardita. In politica lo sono stati sicuramente i Cinque Stelle. Non dimentichiamo che, nel 2015, Di Matteo apre anche un fronte politico partecipando a un convegno organizzato dal gruppo grillino della Camera e che, nel 2017, a pochi mesi dalle elezioni politiche, rispondendo a una domanda di un giornalista, dice di «non escludere» di accettare l’offerta di fare il ministro in un eventuale governo Cinque Stelle, perché «per me i pm possono fare politica»; cosa che Di Maio commentò con un eloquente: «È una bella notizia».

Amici amici, ma nei fatti Di Matteo è rimasto al palo. Si è fatto un’idea del perché?
Guardi, quando nel 2018 nasce il governo tra Cinque Stelle e Lega, nel mondo della magistratura si dà per scontato di vedere Di Matteo ministro della Giustizia, o comunque in un posto importante del ministero, capo di gabinetto o a capo del Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che sovrintende al sistema carcerario. Parlando in quei giorni con la mia collega Maria Casola, che sta al ministero, ammetto che per la
prima volta dopo anni ho la sensazione di trovarmi fuori dai giochi. Del resto è normale, è cambiato il mondo politico e toccherà ad altri dirigere il traffico.

 

Ma l’attesa rivoluzione non accade.
Con mia sorpresa per i posti chiave vedo spuntare persone non vicine, almeno in teoria, né a Davigo né a Di Matteo, ma a vario titolo alla mia corrente: da Fulvio Baldi, che diventa capo di gabinetto, all’oggi noto Francesco Basentini a capo del Dap (sarà costretto dopo pochi mesi alle dimissioni, travolto dalle polemiche sulle scarcerazioni facili, tra cui quelle di diversi pericolosi boss, durante la prima ondata dell’emergenza Covid).

Andiamo con ordine. La sera di domenica 2 maggio 2020, nel pieno delle polemiche per le scarcerazioni, collegato telefonicamente con Massimo Giletti a Non è l’Arena su La7, Di Matteo a sorpresa svela: «Il ministro della Giustizia Bonafede, appena insediato, mi telefonò – siamo nel giugno 2018 – e mi chiese se mi andava di dirigere il Dap. Mi presi 48 ore di tempo e gli comunicai che avrei accettato, ma lui nel frattempo ci aveva ripensato. I capimafia, evidentemente, erano contrari alla mia nomina». E scoppia un putiferio.
La prima parte della storia è ovviamente vera, sulla fondatezza della seconda ho qualche dubbio, nel senso che è ovvio che la mafia non voglia vedere Di Matteo al Dap; per la verità, la mafia vorrebbe vedere Di Matteo morto, al punto che è l’uomo più protetto d’Italia. L’idea che mi sono fatto è un’altra.

Quale?
Le faccio vedere uno scambio di messaggi che, giusto il 2 giugno 2018, proprio nel periodo a cui fa riferimento Di Matteo per la sua telefonata con Bonafede, ho con Maria Casola, la mia sponda al ministero: Ore 10:05, Maria Casola: «Non abbiamo nessun peso politico».
Ore 11:32, io le rispondo: «Al momento la situazione è questa».
Ore 18:54, Maria Casola: «Ma Pignatone ambisce a incarichi ministeriali?».
Ore 18:55, io: «Penso siano le solite ridde di voci su tutti». Ore 18:56, Maria Casola: «E com’è che viene spesso?».

Ore 18:56, io: «Con Bonafede o Cesqui?».
Ore 18:57, Maria Casola: «Non lo so da chi va, so che passa nel corridoio. Ma non lo dire a nessuno, ti prego».
Allora la domanda è: che ci faceva Giuseppe Pignatone, procuratore capo di Roma, capo del «partito dei procuratori» che certo non ama Di Matteo e, come abbiamo già visto e ancor meglio vedremo in seguito, perno del famoso «Sistema» che tutto regola e tutto decide, nelle stanze del ministero in quei giorni decisivi per le nomine?

Immagino che lei un’idea ce l’abbia.
Una risposta ufficiale potrebbe essere che la procura di Roma aveva aperto un’inchiesta sul costruttore Luca Parnasi, poi arrestato, per sospette tangenti sul progetto di costruzione del nuovo stadio della Roma. L’inchiesta coinvolgeva tra gli altri anche Luca Lanzalone, avvocato amico di Beppe Grillo e del ministro Bonafede, che da poco era stato nominato da Virginia Raggi a capo dell’Acea, l’azienda municipalizzata di Roma. Può essere che Pignatone volesse ascoltare Bonafede come persona informata dei fatti, per via di alcune e-mail che i due si erano scambiati. Ma perché disturbare ripetutamente, mi chiedo, un ministro insediato da pochi giorni? E perché non era presente agli incontri, come prassi vorrebbe, la pm che si occupava dell’inchiesta, Barbara Zuin?

Le sue sono solo ipotesi, congetture.
Allora le dico un’altra cosa. Il capo del Dap non è solo colui che si occupa del vitto e alloggio dei detenuti. Il suo è un ruolo chiave, direi strategico, nella gestione della marea di informazioni captate, in un modo o nell’altro, dentro le carceri, soprattutto quelle che riguardano i detenuti mafiosi. Se durante un colloquio, un’intercettazione ambientale in cella, una soffiata tra detenuti, emerge l’ipotesi che il politico X o l’imprenditore Y sono collusi, il primo a saperlo è il capo del Dap, che quella notizia – anche quelle che trapelano dalle celle del 41 bis che ospitano i boss, tipo l’allusione che Totò Riina fece su Berlusconi durante l’ora d’aria – la gestisce come meglio crede. Un potere giudiziario e politico enorme – oltre che ben remunerato – concentrato nelle mani di una sola persona, che nel caso di Di Matteo è pure una persona fuori dal «Sistema» e quindi incontrollabile. Di Matteo, questa è la mia tesi, per evitare altri guai, non è stato fermato né da Bonafede né tantomeno dalla mafia, ma dal famoso «Sistema» che non voleva perdere il controllo della situazione.

Quindi secondo lei Bonafede si è semplicemente adeguato, e per questo non è riuscito a dare risposte convincenti alle accuse di Di Matteo.
Bonafede è un politico che per la prima volta si trova a maneggiare un mondo complesso come il nostro, e inevitabilmente è portato a dare fiducia a una cerchia ristretta di persone, e diciamo pure un sognatore che dall’oggi al domani si è trovato al centro di giochi di potere più grandi di lui. In assoluta buona fede – immagino – telefona al grande Di Matteo, mito suo e dei suoi elettori, e gli chiede di entrare in partita. Quando il «Sistema» lo viene a sapere, lo avvicina e tra lusinghe e allusioni lo riporta con i piedi per terra: ministro, non hai capito come funziona il mondo.

E quindi dalla mattina alla sera Bonafede molla Di Matteo e per il Dap va su Basentini.
Che, detto con rispetto, è come, nel calcio, mollare Ronaldo per Mario Rossi.

Ma perché proprio Basentini?
Al ministero c’è un giovane magistrato amico di Bonafede e da lui molto ascoltato, Leonardo Pucci, che tra il 2014 e il 2015, prima di trasferirsi in Toscana dove aggancia il futuro ministro, ha lavorato a Potenza insieme a Basentini, di cui è diventato amico. Basentini – da me sostenuto – diventa procuratore ed è noto per l’inchiesta Tempa Rossa sui giacimenti petroliferi dell’Eni che nel 2016, con il governo Renzi, portò alle dimissioni della ministra Federica Guidi e coinvolse pure Maria Elena Boschi. Ricordo che, dopo l’interrogatorio della Boschi, Basentini volle incontrarmi insieme al procuratore Luigi Gay e all’aggiunto Laura Triassi per relazionarmi su quanto stava accadendo e per mandare messaggi distensivi. L’incontro avvenne presso il bar Vanni e in quell’occasione Basentini mi disse che l’interrogatorio della Boschi non era durato un paio d’ore ma molto meno, e che le lungaggini erano state determinate dal fatto che durante l’audizione il computer si era bloccato, con grande imbarazzo dei presenti. Non capivo allora e non capisco nemmeno oggi il perché vollero vedermi e soprattutto la necessità di sentire la Boschi, se non ce n’era alcun bisogno.

Mi sta dicendo che tre amici al bar, di cui due praticamente sconosciuti, hanno fatto le scarpe al grande Di Matteo?
Non esattamente. Le sto dicendo che qualcuno ha stoppato Bonafede su Di Matteo e che il ministro, messo alle strette e non sapendo per inesperienza a che santo votarsi, si è fidato e affidato a una ristretta cerchia di persone, con i risultati che purtroppo ben conosciamo. Sarà un caso, ma l’anno successivo, nel 2019, Di Matteo si candida con successo per il Csm, lui che teorizzava la necessità che un magistrato, se voleva essere duro e puro, doveva stare alla larga dalle correnti e dai giochi di palazzo. Probabilmente – è una mia idea – dopo la batosta del Dap ha capito anche lui che se sei fuori da quelle stanze, se non entri nel «Sistema» e inizi a mediare, puoi essere bravo fin che vuoi ma non vai da nessuna parte. A pensare di essere troppo bravi – peggio ancora, i più bravi di tutti – in magistratura si rischia di inciampare, come è successo a Henry John Woodcock, il famoso procuratore di Napoli, sull’inchiesta Consip e non solo.


venerdì 29 gennaio 2021

IL SISTEMA: STORIA SEGRETA DELLA MAGISTRATURA ITALIANA (1)

(tratto dal capitolo "Cane non morde cane - la marcia su Roma di Pignatone" da il libro "il sistema" di Alessandro Sallusti e Luca Palamara, pag. 81, Ed. Rizzoli)

 

Da dove cominciamo? Dall’inizio direi, dal primo colpo da novanta che metto a segno giusto a cavallo tra le mie due vite, cioè tra il 2011 e il 2012, e che segnerà la mia storia ma anche quella di tanti altri: intestarmi la nomina di Giuseppe Pignatone a procuratore capo di Roma, caput mundi anche per la magistratura. Pignatone, oggi presidente del tribunale dello Stato del Vaticano, lo conosco nel 2011, quando come presidente Anm intensifico la mia presenza a Reggio Calabria, dove lui opera in qualità di procuratore. Si era messo in luce nella lotta alla ’ndrangheta grazie anche a un’inedita collaborazione con la procura di Milano. Di lì a breve si sarebbero liberate due procure importanti, quella di Napoli e quella di Roma, e Pignatone, ben conoscendo il mio ruolo nella politica associativa, inizia a parlarmi delle sue ambizioni future. Capisco che per lui Reggio Calabria è una sorta di esilio professionale e personale. Non ama quella città, nei suoi racconti di vita e di professione c’è Palermo, casa sua, anche se lì più volte era stato tradito. Gli brucia soprattutto quanto accaduto tanti anni prima, nel 1993, quando Gian Carlo Caselli, uomo della sinistra giudiziaria e, come noto, molto legato a Luciano Violante, una volta insediatosi come procuratore lo relega a incarichi marginali. Dopo l’arrivo di Pietro Grasso al posto di Caselli, Pignatone riesce a riemergere con un ruolo importante nella cattura del boss Provenzano, poi però nel 2006, ancora una volta, il Csm, nel quale sedeva anche Giovanni Salvi, lo ferma e fa passare avanti Francesco Messineo, sicuramente meno titolato di lui, quale nuovo procuratore della Repubblica.
Quindi, se ben capisco, secondo la sua versione Pignatone scappa da Palermo e si rifugia a Reggio, che però non ama. Quello che non mi è chiaro è perché questa storia è così importante. Perché il punto di arrivo di questi spostamenti è Roma, ma anche perché la vicenda illustra al meglio un aspetto fondamentale: Pignatone aveva capito che, per quanto bravo fosse, senza sponde nelle correnti e nelle istituzioni non avrebbe mai raggiunto obiettivi importanti, e lo aveva sperimentato sulla sua pelle. Io sono il suo gancio con il sistema, e lui diventerà un pezzo pregiato del mio sistema, al punto che scherzando con sua moglie Piera arriverò a dirle: «Guarda che io non riconosco capi all’infuori di Pignatone». E così Pignatone arriva a Roma… Non fu una passeggiata. Lui in realtà pensava più alla procura di Napoli; io, siamo a cavallo tra il 2011 e il 2012, lo convinsi in un incontro avvenuto proprio a Napoli, all’Hotel Vesuvio, che era meglio concentrarsi su Roma, dove c’erano più possibilità di successo e di future soddisfazioni, anche se Roma non era abituata a un papa straniero. La sua idea di fondo è quella di sviluppare la lotta alla mafia anche nella capitale. Io ovviamente metto a sua disposizione le conoscenze che ho rispetto a quell’ufficio, e al fatto che negli ultimi anni non ci sia stata una grande attenzione su questi temi. I contenuti di quel mio colloquio li ritroverò meglio dettagliati in un successivo articolo a firma di Lirio Abbate, pubblicato sul settimanale «L’Espresso», che di fatto anticiperà l’indagine di Mafia capitale, e in seguito nel romanzo Suburra, scritto dal giornalista Carlo Bonini e dal magistrato Giancarlo De Cataldo (il quale, ironia della sorte, finirà intercettato con Salvatore Buzzi, ma nonostante questo sarà assolto dal Csm). Restiamo a quell’incontro e alle carte sul tavolo: lui si fida di me, era quotato nella mia corrente e godeva di simpatie in quella alla mia destra, Magistratura indipendente. Sicuramente non aveva nulla a che fare con la sinistra di Magistratura democratica. Partita complessa, insomma. Chi era il concorrente di Pignatone per quella poltrona? Giancarlo Capaldo, uno degli aggiunti del procuratore uscente Giovanni Ferrara. Capaldo aveva fatto una bella marcia di avvicinamento, si era occupato di grandi casi, da Emanuela Orlandi a Finmeccanica fino al Vaticano, ed era diventato un riferimento all’interno dell’ufficio. All’epoca però c’è una sua indagine che comincia a creare tensioni, proprio quella su Finmeccanica, azienda strategica per lo Stato. Quello che Capaldo sottovaluta è che, quando si elegge un procuratore, a Roma si aggira sempre un «cecchino» e l’attenzione deve essere massima. Lui fa il passo falso: va a una cena con il ministro dell’Economia Tremonti e con il suo braccio destro Milanese, che era coinvolto nell’inchiesta Finmeccanica. Capaldo vede Tremonti per parlare dell’inchiesta, o per avere un appoggio, una sponda politica per la sua nomina? Chissà, forse per tutte e due le cose, ma sta di fatto che il cecchino spara e lo centra: rivela l’incontro alla stampa, e la sua candidatura salta. Il posto di Capaldo nell’indagine Finmeccanica verrà preso da Paolo Ielo, che di fatto spazzerà via i «Capaldo boys», come scherzosamente chiamavamo tutti i pubblici ministeri che lo affiancavano nelle inchieste più delicate, come fossero magistrati alle prime armi. È già la seconda volta, in questo racconto – la prima fu quando divenne presidente dell’Anm nel 2008 – che un cecchino le spiana la strada, a lei e ai suoi piani. Non lo trova sospetto? Non frequento killer, e comunque anche io ne sarò vittima. Certo, se quella cena con Tremonti non fosse venuta fuori, difficilmente Pignatone sarebbe sbarcato a Roma, e io avrei avuto grande difficoltà a far desistere tutti coloro che volevano Capaldo, e soprattutto a convincere Paolo Auriemma a rappresentare nel 2012 il Csm a Reggio Calabria, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, per dare a Pignatone un segno tangibile del nostro sostegno. Siamo nel marzo di quell’anno, Pignatone è nominato procuratore di Roma all’unanimità. E subito si ritrova un po’ di problemi. Non ha una sua squadra di polizia giudiziaria, non ha un vice di cui fidarsi – Capaldo ovviamente non ha preso bene il suo arrivo – ed è guardato con sospetto dai colleghi di sinistra, che a Roma sono la maggioranza. Organizzo una cena tra il loro leader, Giuseppe Cascini, e noi due, lo aiuto a circondarsi di investigatori di sua scelta – qualcuno dirà che si era fatto una polizia privata – ma soprattutto mi impegno a portargli a Roma come vice il suo braccio destro di sempre, il procuratore aggiunto Michele Prestipino, che era rimasto a Reggio Calabria a fare la guardia all’ufficio. Con lui Pignatone – fu una sua confidenza – avrebbe voluto cambiare l’agenda della procura di Roma, sterzare su grosse indagini contro la criminalità organizzata mafiosa, come aveva fatto a Palermo prima e a Reggio Calabria poi. Mafia capitale, l’inchiesta che ha messo sottosopra Roma e ha fatto parlare il mondo intero, nasce da, come potremmo dire… da una «deformazione professionale» di Pignatone, anche se poi l’impianto non ha retto il giudizio della Corte di Cassazione, a fine 2019 ha escluso il carattere mafioso dei reati contestati agli imputati. Roma è da sempre piuttosto problematica, anche prima di Mafia capitale. E infatti, prima degli arresti di Mafia capitale, Pignatone, che è solito confidarsi con me, mi comunica che è intenzionato a prendere parte a un convegno del Partito democratico. Rimango colpito da quest’idea, anche perché da quando è venuto a Roma non c’è mai stata una sua partecipazione a iniziative politiche. Gli esprimo le mie perplessità, perplessità che resteranno inascoltate. Teniamo conto che nei mesi successivi la procura di Roma indagherà l’allora sindaco Ignazio Marino. La vicenda crea imbarazzo anche all’interno del Csm, perché Giovanni Legnini è molto amico di Marino. In più occasioni, durante gli abituali incontri con Pignatone, Legnini proverà a perorare la causa del sindaco, ma la posizione di Pignatone sarà inflessibile, come raramente mi è capitato di notare. E infatti Legnini capisce l’antifona e lascia stare, non prima di aver annunciato a Marino, il giorno prima della sentenza, che sarebbe stato condannato perché era una sentenza politica e che c’erano state pressioni sul gip Balestrieri. Non è una città facile, Roma. Lei però è una buona guida: conosce tutti, sa come muoversi. E infatti, appena sono nominato al Csm, nel 2014, Pignatone mi chiede di partecipare a una cena a casa di Paolo Ielo. Quella tavolata serve a siglare un patto, ma soprattutto a creare un canale tra la procura di Roma e il Csm: in buona sostanza io mi farò carico di essere, dentro il Consiglio superiore, la sponda delle istanze di Pignatone, e più in generale dell’ufficio che dirige. A quella cena, oltre al padrone di casa Paolo Ielo e allo stesso Pignatone, partecipano anche Giuseppe Cascini, Stefano Pesci e Rodolfo Sabelli.

 

 

Il primo banco di prova arriverà qualche anno dopo, nel febbraio del 2016, quando devono essere nominati i procuratori aggiunti di Roma. Pignatone vuole a tutti i costi Paolo Ielo e Rodolfo Sabelli, sugli altri nomi ho carta bianca. Io sono in difficoltà perché, manuale Cencelli alla mano, devo accontentare anche le richieste della mia corrente. Pignatone comprende le mie titubanze e mi organizza un incontro a due con Paolo Ielo. L’incontro avviene a piazzale Clodio, ci facciamo un giro del palazzo del tribunale e ci diamo la mano. Quella promessa l’ho mantenuta, avrà il mio voto. I problemi però non sono finiti: balla un altro posto, per il quale hanno fatto contemporaneamente domanda Giuseppe Cascini, Nunzia D’Elia e Stefano Pesci. Sono tutti di Magistratura democratica, e peraltro D’Elia e Pesci sono marito e moglie. A Cascini dico che avrà il mio voto, ma la mia disponibilità gli creerà un profondo dissidio con i suoi amici storici. Per evitare drammi in famiglia, decidiamo allora che voterò per D’Elia; il turno di Cascini, come vedremo, arriverà nel 2017. Stando così le cose, l’unico a essere tagliato fuori è Stefano Pesci, che però nel frattempo è entrato nelle grazie del procuratore Pignatone. A cavallo tra il 2018 e il 2019 Stefano Pesci mi chiederà l’appoggio per diventare procuratore aggiunto a Roma. Gli obietto che marito e moglie nello stesso ufficio non mi pare una grande idea. Lui mi risponde dicendo che è in grado di portarmi un foglio nel quale la moglie promette di andare in pensione se lui verrà nominato. Mi sembra di assistere a delle scene surreali, e comunico quanto sta avvenendo ai miei colleghi di corrente, che rimangono sbalorditi. Stefano Pesci è il magistrato che nel 2010 finì sotto inchiesta per aver acquisito, senza averne titolo, informazioni dal registro della procura per fornirle al pm fiorentino Luca Turco, che stava svolgendo indagini parallele a quelle della procura di Roma. In relazione a questa vicenda l’allora procuratore aggiunto di Roma Achille Toro fu costretto alle dimissioni; Stefano Pesci invece venne assolto. Su Mafia capitale qualche attento osservatore, in prima fila Giuliano Ferrara sul «Foglio», sostenne fin dall’inizio la tesi dell’assenza dell’aggravante mafiosa, andando contro corrente rispetto alla maggiorparte dei giornali, che su quell’inchiesta suonarono la grancassa. Ma torniamo a lei, al suo Risiko delle nomine. Sì, ho fatto un’altra fuga in avanti. Dicevamo che la mia nuova missione era di portare a Roma Michele Prestipino. Studio la pratica, il varco c’è: bisogna lavorare al gioco di incastri per eleggere il nuovo procuratore di Reggio Calabria, quello che deve prendere il posto lasciato libero da Pignatone. In campo ci sono Federico Cafiero De Raho, procuratore aggiunto a Napoli, e due dei vice di Pignatone a Reggio Calabria, Nicola Gratteri e lo stesso Prestipino. Sondo le intenzioni sia di Gratteri sia di Cafiero De Raho, quest’ultimo fortemente sponsorizzato dalla mia corrente Unicost di Napoli, che pensa di poter colonizzare la Calabria. Durante una colazione a casa della giornalista Anna La Rosa, spiego a Gratteri le difficoltà che sta incontrando la sua candidatura; gli confermo che ha sì l’appoggio di Magistratura indipendente, ma è avversato da Magistratura democratica e soprattutto non è in cima ai pensieri di Pignatone, il quale sta manifestando in più sedi, anche al Csm, una forte volontà di scegliersi sia il vice a Roma sia il successore a Reggio. Gratteri, che conosco dai tempi del mio esordio in magistratura, reagisce male e non accetta quella che ravvisa come una mancanza di fiducia nei suoi confronti. Il derby è quindi tra Prestipino e Cafiero De Raho. Avvincente. Come se ne esce? Non è facilissimo: in prima battuta Pignatone preferirebbe Prestipino a Reggio Calabria. Ma la corrente napoletana di Unicost, come dicevo, spinge molto per Cafiero De Raho. D’accordo con Pignatone, tentiamo la spallata finale: in un tardo pomeriggio del febbraio 2013 Cafiero De Raho viene a Roma per discutere di questioni d’ufficio con il procuratore. Con Pignatone rimaniamo intesi in questo modo: poco prima della fine del loro incontro mi manderà un messaggino e io capirò che devo scendere ed entrare nella sua stanza, facendo finta di essere lì per caso. Finito il loro colloquio accompagnerò Cafiero all’uscita, per cercare di convincerlo a rinunciare a Reggio Calabria. Il mio tentativo andrà a vuoto e a quel punto, sempre d’accordo con Pignatone, l’operazione successiva sarà quella di portare Prestipino a Roma. Che infatti, nel 2013, arriva nella capitale a fare da spalla di Pignatone.

 

Pignatone ha il potere, lei una parte consistente dei voti necessari per muovere le pedine sullo scacchiere. Un incastro perfetto, ma anche abbastanza anomalo. Non trova? Funziona così, non dico che sia giusto o sbagliato, è così. In quel momento, devo ammetterlo, siamo forti e non ci spaventa affrontare i problemi. Che arrivano, ovviamente. Il primo che ci si presenta è disinnescare l’ambizione di un collega, Luigi De Ficchy, in quel momento procuratore di Tivoli. Aveva fatto anche lui domanda per diventare aggiunto a Roma, ma, avendo visto passargli avanti a tutta velocità Michele Prestipino, sporge ricorso al Tar, sostenendo di avere più titoli per occupare quel posto. Carte alla mano non aveva tutti i torti, ma il meccanismo delle nomine, come stiamo vedendo da vicino, nonostante i proclami di imparzialità e trasparenza prescinde dai curricula e segue altre logiche, molto discrezionali e legate a opportunità politiche, di potere e di appartenenza alle correnti. Quel ricorso nel marzo 2015 De Ficchy lo perde, ma potrebbe sempre fare appello al Consiglio di Stato. Se così fosse, la parola definitiva sulla sua vicenda, e quindi sulla nomina di Prestipino, spetterebbe al presidente della quarta sezione della Cassazione, che in quel momento è Sergio Santoro, un magistrato che verrà poi indagato e prosciolto da una accusa di corruzione in atti giudiziari. Vengo invitato a un pranzo a casa del presidente Santoro nella sua abitazione ai Parioli. Lì trovo anche Pignatone e Centofanti. Ricordo che a un certo punto la moglie arriva trafelata e ancora sulla porta dice al marito: «Ma che succede, le scorte non volevano farmi salire in casa mia, qui sotto è tutto blindato». In effetti a Roma, con Pignatone, s’inaugura la stagione delle grandi scorte in stile palermitano, che noi non avevamo mai visto e a cui non eravamo abituati. Scorte a parte, precisi cosa ci sta dicendo: ci fu un tentativo preventivo di indirizzare la giustizia in un senso? Me ne guardo bene. Voglio solo dire una cosa: a quel tavolo c’era il procuratore più importante e influente d’Italia, Pignatone. C’ero io, il signore delle tessere della magistratura. C’era Fabrizio Centofanti, e sappiamo quali saranno in seguito le accuse a suo carico. C’era un convitato di pietra, il procuratore della Repubblica De Ficchy, nemico di Pignatone, che reclamava giustizia. E c’era un magistrato, Santoro, che avrebbe potuto essere a breve arbitro in una sentenza – il ricorso contro Prestipino – che interessava sia Pignatone sia De Ficchy. Benissimo, ora la invito a questo gioco: proiettiamo i commensali di quella cena nel futuro prossimo. Pignatone arresterà Centofanti determinando l’inizio dei miei guai; sempre Pignatone, quel giorno a me alleato, insieme a De Ficchy, quel giorno a lui nemico, decideranno la mia morte. Io non le sto parlando di reati, anche perché De Ficchy non fece ricorso al Consiglio di Stato. Le sto dicendo che il «Sistema» è una bestia complessa e imprevedibile, altro che cene dell’Hotel Champagne. E siamo ancora al primo problema. Quali saranno gli altri? Per trovare un equilibrio alla vicenda, nel gennaio del 2015 mi attivo fortemente per la nomina di Luigi De Ficchy a procuratore di Perugia. Ma non è tutto lineare. Pignatone infatti non la prende per niente bene, perché teme fortemente che la competenza di Perugia sui magistrati romani possa creare dei problemi alla luce del contenzioso tra De Ficchy e Prestipino. Anche in questo caso mi attivo per trovare un punto di equilibrio. Nei mesi successivi organizzo un incontro a tre: io, Pignatone e De Ficchy. Ci vediamo al bar Vanni, a Roma, zona Prati, una conversazione riservata che si svolge in una sala privata al piano superiore. Un carattere di riservatezza che dura molto poco, perché gli spostamenti di Pignatone, iperscortato, non possono passare inosservati. La pace siglata tra i due durerà anch’essa molto poco: di lì a breve la procura di Perugia aprirà un’indagine nei confronti di uno dei più stretti collaboratori del procuratore Pignatone. Si tratta di Renato Cortese, autore della cattura di Provenzano e capo della squadra Mobile di Roma, che insieme a Maurizio Improta, responsabile dell’ufficio immigrazione della stessa procura, nell’ottobre 2020 verrà condannato per la vicenda Shalabayeva, la frettolosa espulsione dall’Italia della moglie di un dissidente kazako. Indagine condotta da Antonella Duchini, in quel momento la più stretta collaboratrice di De Ficchy. Uno scontro frontale, ma in cui i colpi di scena non mancheranno: dopo poco tempo De Ficchy mi chiederà la testa della Duchini, e si riappacificherà con Pignatone.

Provo a tirare le fila: lei quindi sostiene che nella magistratura le decisioni vengano prese fuori dalla sede istituzionale che è il Csm.
Sa quante persone, per fatti del genere o per più banali «traffici di influenze» in politica e in aziende pubbliche e private sono finite sotto inchiesta, e molte di loro in galera? Certo che lo so, ed è una vergogna. Noi però siamo al di là di questo, nessuno ci controlla: cane non morde cane. E poi formalmente tutto è regolare. Al Csm, e io ci sono stato, si fanno le audizioni per decidere chi promuovere e chi no, ma se ancora non fosse chiaro quelle audizioni altro non sono che un proforma. Me lo faccia dire chiaramente: chi le invoca come la panacea di tutti i mali vive su Marte, perché i candidati trovano gente non solo distratta, ma spesso del tutto impreparata. Spiegare come si vuole organizzare una procura a persone che in una procura non hanno mai passato un giorno di lavoro è come… è come se un direttore di giornale spiegasse a me come intende organizzare la redazione e qual è la linea editoriale. Ma questo è il meno: chi viene audito spesso appartiene a una corrente, che in base agli accordi presi l’ha preparato su cosa dire e non dire per non rischiare di fare saltare l’intesa già raggiunta sul suo nome o per tentare, a seconda dei casi, di tenerlo in gioco. Sbrigata la formalità delle audizioni, ecco che entrano in campo le correnti, con i segretari che iniziano a interloquire con i membri del Csm. La partita vera è tutta lì. Ed è una partita, come in parte abbiamo già visto, senza esclusione di colpi, e colpi bassi. I casi delle procure di Palermo, Napoli e Milano, cioè delle più importanti procure insieme a Roma, sono in questo senso esemplari. E io questo sono in grado di ricostruirlo in maniera documentale.