(tratto dal capitolo "Cane non morde cane - la marcia su Roma di Pignatone" da il libro "il sistema" di Alessandro Sallusti e Luca Palamara, pag. 81, Ed. Rizzoli)
Da dove cominciamo? Dall’inizio direi, dal primo colpo da
novanta che metto a segno giusto a cavallo tra le mie due vite, cioè tra il
2011 e il 2012, e che segnerà la mia storia ma anche quella di tanti altri:
intestarmi la nomina di Giuseppe Pignatone a procuratore capo di Roma, caput
mundi anche per la magistratura. Pignatone, oggi presidente del tribunale dello
Stato del Vaticano, lo conosco nel 2011, quando come presidente Anm intensifico
la mia presenza a Reggio Calabria, dove lui opera in qualità di procuratore. Si
era messo in luce nella lotta alla ’ndrangheta grazie anche a un’inedita
collaborazione con la procura di Milano. Di lì a breve si sarebbero liberate
due procure importanti, quella di Napoli e quella di Roma, e Pignatone, ben
conoscendo il mio ruolo nella politica associativa, inizia a parlarmi delle sue
ambizioni future. Capisco che per lui Reggio Calabria è una sorta di esilio
professionale e personale. Non ama quella città, nei suoi racconti di vita e di
professione c’è Palermo, casa sua, anche se lì più volte era stato tradito. Gli
brucia soprattutto quanto accaduto tanti anni prima, nel 1993, quando Gian
Carlo Caselli, uomo della sinistra giudiziaria e, come noto, molto legato a
Luciano Violante, una volta insediatosi come procuratore lo relega a incarichi
marginali. Dopo l’arrivo di Pietro Grasso al posto di Caselli, Pignatone riesce
a riemergere con un ruolo importante nella cattura del boss Provenzano, poi
però nel 2006, ancora una volta, il Csm, nel quale sedeva anche Giovanni Salvi,
lo ferma e fa passare avanti Francesco Messineo, sicuramente meno titolato di
lui, quale nuovo procuratore della Repubblica.
Quindi, se ben capisco, secondo la sua versione Pignatone scappa da Palermo e
si rifugia a Reggio, che però non ama. Quello che non mi è chiaro è perché
questa storia è così importante. Perché il punto di arrivo di questi
spostamenti è Roma, ma anche perché la vicenda illustra al meglio un aspetto
fondamentale: Pignatone aveva capito che, per quanto bravo fosse, senza sponde
nelle correnti e nelle istituzioni non avrebbe mai raggiunto obiettivi
importanti, e lo aveva sperimentato sulla sua pelle. Io sono il suo gancio con
il sistema, e lui diventerà un pezzo pregiato del mio sistema, al punto che
scherzando con sua moglie Piera arriverò a dirle: «Guarda che io non riconosco
capi all’infuori di Pignatone». E così Pignatone arriva a Roma… Non fu una passeggiata.
Lui in realtà pensava più alla procura di Napoli; io, siamo a cavallo tra il
2011 e il 2012, lo convinsi in un incontro avvenuto proprio a Napoli, all’Hotel
Vesuvio, che era meglio concentrarsi su Roma, dove c’erano più possibilità di
successo e di future soddisfazioni, anche se Roma non era abituata a un papa
straniero. La sua idea di fondo è quella di sviluppare la lotta alla mafia
anche nella capitale. Io ovviamente metto a sua disposizione le conoscenze che
ho rispetto a quell’ufficio, e al fatto che negli ultimi anni non ci sia stata
una grande attenzione su questi temi. I contenuti di quel mio colloquio li
ritroverò meglio dettagliati in un successivo articolo a firma di Lirio Abbate,
pubblicato sul settimanale «L’Espresso», che di fatto anticiperà l’indagine di
Mafia capitale, e in seguito nel romanzo Suburra, scritto dal giornalista Carlo
Bonini e dal magistrato Giancarlo De Cataldo (il quale, ironia della sorte,
finirà intercettato con Salvatore Buzzi, ma nonostante questo sarà assolto dal
Csm). Restiamo a quell’incontro e alle carte sul tavolo: lui si fida di me, era
quotato nella mia corrente e godeva di simpatie in quella alla mia destra,
Magistratura indipendente. Sicuramente non aveva nulla a che fare con la
sinistra di Magistratura democratica. Partita complessa, insomma. Chi era il
concorrente di Pignatone per quella poltrona? Giancarlo Capaldo, uno degli
aggiunti del procuratore uscente Giovanni Ferrara. Capaldo aveva fatto una
bella marcia di avvicinamento, si era occupato di grandi casi, da Emanuela
Orlandi a Finmeccanica fino al Vaticano, ed era diventato un riferimento
all’interno dell’ufficio. All’epoca però c’è una sua indagine che comincia a
creare tensioni, proprio quella su Finmeccanica, azienda strategica per lo
Stato. Quello che Capaldo sottovaluta è che, quando si elegge un procuratore, a
Roma si aggira sempre un «cecchino» e l’attenzione deve essere massima. Lui fa
il passo falso: va a una cena con il ministro dell’Economia Tremonti e con il suo
braccio destro Milanese, che era coinvolto nell’inchiesta Finmeccanica. Capaldo
vede Tremonti per parlare dell’inchiesta, o per avere un appoggio, una sponda
politica per la sua nomina? Chissà, forse per tutte e due le cose, ma sta di
fatto che il cecchino spara e lo centra: rivela l’incontro alla stampa, e la
sua candidatura salta. Il posto di Capaldo nell’indagine Finmeccanica verrà
preso da Paolo Ielo, che di fatto spazzerà via i «Capaldo boys», come
scherzosamente chiamavamo tutti i pubblici ministeri che lo affiancavano nelle
inchieste più delicate, come fossero magistrati alle prime armi. È già la
seconda volta, in questo racconto – la prima fu quando divenne presidente
dell’Anm nel 2008 – che un cecchino le spiana la strada, a lei e ai suoi piani.
Non lo trova sospetto? Non frequento killer, e comunque anche io ne sarò
vittima. Certo, se quella cena con Tremonti non fosse venuta fuori,
difficilmente Pignatone sarebbe sbarcato a Roma, e io avrei avuto grande
difficoltà a far desistere tutti coloro che volevano Capaldo, e soprattutto a
convincere Paolo Auriemma a rappresentare nel 2012 il Csm a Reggio Calabria, in
occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, per dare a Pignatone un
segno tangibile del nostro sostegno. Siamo nel marzo di quell’anno, Pignatone è
nominato procuratore di Roma all’unanimità. E subito si ritrova un po’ di
problemi. Non ha una sua squadra di polizia giudiziaria, non ha un vice di cui
fidarsi – Capaldo ovviamente non ha preso bene il suo arrivo – ed è guardato
con sospetto dai colleghi di sinistra, che a Roma sono la maggioranza.
Organizzo una cena tra il loro leader, Giuseppe Cascini, e noi due, lo aiuto a
circondarsi di investigatori di sua scelta – qualcuno dirà che si era fatto una
polizia privata – ma soprattutto mi impegno a portargli a Roma come vice il suo
braccio destro di sempre, il procuratore aggiunto Michele Prestipino, che era
rimasto a Reggio Calabria a fare la guardia all’ufficio. Con lui Pignatone – fu
una sua confidenza – avrebbe voluto cambiare l’agenda della procura di Roma,
sterzare su grosse indagini contro la criminalità organizzata mafiosa, come
aveva fatto a Palermo prima e a Reggio Calabria poi. Mafia capitale,
l’inchiesta che ha messo sottosopra Roma e ha fatto parlare il mondo intero,
nasce da, come potremmo dire… da una «deformazione professionale» di Pignatone,
anche se poi l’impianto non ha retto il giudizio della Corte di Cassazione, a
fine 2019 ha escluso il carattere mafioso dei reati contestati agli imputati.
Roma è da sempre piuttosto problematica, anche prima di Mafia capitale. E
infatti, prima degli arresti di Mafia capitale, Pignatone, che è solito
confidarsi con me, mi comunica che è intenzionato a prendere parte a un
convegno del Partito democratico. Rimango colpito da quest’idea, anche perché
da quando è venuto a Roma non c’è mai stata una sua partecipazione a iniziative
politiche. Gli esprimo le mie perplessità, perplessità che resteranno
inascoltate. Teniamo conto che nei mesi successivi la procura di Roma indagherà
l’allora sindaco Ignazio Marino. La vicenda crea imbarazzo anche all’interno
del Csm, perché Giovanni Legnini è molto amico di Marino. In più occasioni,
durante gli abituali incontri con Pignatone, Legnini proverà a perorare la
causa del sindaco, ma la posizione di Pignatone sarà inflessibile, come
raramente mi è capitato di notare. E infatti Legnini capisce l’antifona e
lascia stare, non prima di aver annunciato a Marino, il giorno prima della
sentenza, che sarebbe stato condannato perché era una sentenza politica e che
c’erano state pressioni sul gip Balestrieri. Non è una città facile, Roma. Lei
però è una buona guida: conosce tutti, sa come muoversi. E infatti, appena sono
nominato al Csm, nel 2014, Pignatone mi chiede di partecipare a una cena a casa
di Paolo Ielo. Quella tavolata serve a siglare un patto, ma soprattutto a
creare un canale tra la procura di Roma e il Csm: in buona sostanza io mi farò
carico di essere, dentro il Consiglio superiore, la sponda delle istanze di
Pignatone, e più in generale dell’ufficio che dirige. A quella cena, oltre al
padrone di casa Paolo Ielo e allo stesso Pignatone, partecipano anche Giuseppe
Cascini, Stefano Pesci e Rodolfo Sabelli.
Il primo banco di prova arriverà qualche anno dopo, nel febbraio del 2016, quando devono essere nominati i procuratori aggiunti di Roma. Pignatone vuole a tutti i costi Paolo Ielo e Rodolfo Sabelli, sugli altri nomi ho carta bianca. Io sono in difficoltà perché, manuale Cencelli alla mano, devo accontentare anche le richieste della mia corrente. Pignatone comprende le mie titubanze e mi organizza un incontro a due con Paolo Ielo. L’incontro avviene a piazzale Clodio, ci facciamo un giro del palazzo del tribunale e ci diamo la mano. Quella promessa l’ho mantenuta, avrà il mio voto. I problemi però non sono finiti: balla un altro posto, per il quale hanno fatto contemporaneamente domanda Giuseppe Cascini, Nunzia D’Elia e Stefano Pesci. Sono tutti di Magistratura democratica, e peraltro D’Elia e Pesci sono marito e moglie. A Cascini dico che avrà il mio voto, ma la mia disponibilità gli creerà un profondo dissidio con i suoi amici storici. Per evitare drammi in famiglia, decidiamo allora che voterò per D’Elia; il turno di Cascini, come vedremo, arriverà nel 2017. Stando così le cose, l’unico a essere tagliato fuori è Stefano Pesci, che però nel frattempo è entrato nelle grazie del procuratore Pignatone. A cavallo tra il 2018 e il 2019 Stefano Pesci mi chiederà l’appoggio per diventare procuratore aggiunto a Roma. Gli obietto che marito e moglie nello stesso ufficio non mi pare una grande idea. Lui mi risponde dicendo che è in grado di portarmi un foglio nel quale la moglie promette di andare in pensione se lui verrà nominato. Mi sembra di assistere a delle scene surreali, e comunico quanto sta avvenendo ai miei colleghi di corrente, che rimangono sbalorditi. Stefano Pesci è il magistrato che nel 2010 finì sotto inchiesta per aver acquisito, senza averne titolo, informazioni dal registro della procura per fornirle al pm fiorentino Luca Turco, che stava svolgendo indagini parallele a quelle della procura di Roma. In relazione a questa vicenda l’allora procuratore aggiunto di Roma Achille Toro fu costretto alle dimissioni; Stefano Pesci invece venne assolto. Su Mafia capitale qualche attento osservatore, in prima fila Giuliano Ferrara sul «Foglio», sostenne fin dall’inizio la tesi dell’assenza dell’aggravante mafiosa, andando contro corrente rispetto alla maggiorparte dei giornali, che su quell’inchiesta suonarono la grancassa. Ma torniamo a lei, al suo Risiko delle nomine. Sì, ho fatto un’altra fuga in avanti. Dicevamo che la mia nuova missione era di portare a Roma Michele Prestipino. Studio la pratica, il varco c’è: bisogna lavorare al gioco di incastri per eleggere il nuovo procuratore di Reggio Calabria, quello che deve prendere il posto lasciato libero da Pignatone. In campo ci sono Federico Cafiero De Raho, procuratore aggiunto a Napoli, e due dei vice di Pignatone a Reggio Calabria, Nicola Gratteri e lo stesso Prestipino. Sondo le intenzioni sia di Gratteri sia di Cafiero De Raho, quest’ultimo fortemente sponsorizzato dalla mia corrente Unicost di Napoli, che pensa di poter colonizzare la Calabria. Durante una colazione a casa della giornalista Anna La Rosa, spiego a Gratteri le difficoltà che sta incontrando la sua candidatura; gli confermo che ha sì l’appoggio di Magistratura indipendente, ma è avversato da Magistratura democratica e soprattutto non è in cima ai pensieri di Pignatone, il quale sta manifestando in più sedi, anche al Csm, una forte volontà di scegliersi sia il vice a Roma sia il successore a Reggio. Gratteri, che conosco dai tempi del mio esordio in magistratura, reagisce male e non accetta quella che ravvisa come una mancanza di fiducia nei suoi confronti. Il derby è quindi tra Prestipino e Cafiero De Raho. Avvincente. Come se ne esce? Non è facilissimo: in prima battuta Pignatone preferirebbe Prestipino a Reggio Calabria. Ma la corrente napoletana di Unicost, come dicevo, spinge molto per Cafiero De Raho. D’accordo con Pignatone, tentiamo la spallata finale: in un tardo pomeriggio del febbraio 2013 Cafiero De Raho viene a Roma per discutere di questioni d’ufficio con il procuratore. Con Pignatone rimaniamo intesi in questo modo: poco prima della fine del loro incontro mi manderà un messaggino e io capirò che devo scendere ed entrare nella sua stanza, facendo finta di essere lì per caso. Finito il loro colloquio accompagnerò Cafiero all’uscita, per cercare di convincerlo a rinunciare a Reggio Calabria. Il mio tentativo andrà a vuoto e a quel punto, sempre d’accordo con Pignatone, l’operazione successiva sarà quella di portare Prestipino a Roma. Che infatti, nel 2013, arriva nella capitale a fare da spalla di Pignatone.
Pignatone ha il potere, lei una parte consistente dei voti necessari per muovere le pedine sullo scacchiere. Un incastro perfetto, ma anche abbastanza anomalo. Non trova? Funziona così, non dico che sia giusto o sbagliato, è così. In quel momento, devo ammetterlo, siamo forti e non ci spaventa affrontare i problemi. Che arrivano, ovviamente. Il primo che ci si presenta è disinnescare l’ambizione di un collega, Luigi De Ficchy, in quel momento procuratore di Tivoli. Aveva fatto anche lui domanda per diventare aggiunto a Roma, ma, avendo visto passargli avanti a tutta velocità Michele Prestipino, sporge ricorso al Tar, sostenendo di avere più titoli per occupare quel posto. Carte alla mano non aveva tutti i torti, ma il meccanismo delle nomine, come stiamo vedendo da vicino, nonostante i proclami di imparzialità e trasparenza prescinde dai curricula e segue altre logiche, molto discrezionali e legate a opportunità politiche, di potere e di appartenenza alle correnti. Quel ricorso nel marzo 2015 De Ficchy lo perde, ma potrebbe sempre fare appello al Consiglio di Stato. Se così fosse, la parola definitiva sulla sua vicenda, e quindi sulla nomina di Prestipino, spetterebbe al presidente della quarta sezione della Cassazione, che in quel momento è Sergio Santoro, un magistrato che verrà poi indagato e prosciolto da una accusa di corruzione in atti giudiziari. Vengo invitato a un pranzo a casa del presidente Santoro nella sua abitazione ai Parioli. Lì trovo anche Pignatone e Centofanti. Ricordo che a un certo punto la moglie arriva trafelata e ancora sulla porta dice al marito: «Ma che succede, le scorte non volevano farmi salire in casa mia, qui sotto è tutto blindato». In effetti a Roma, con Pignatone, s’inaugura la stagione delle grandi scorte in stile palermitano, che noi non avevamo mai visto e a cui non eravamo abituati. Scorte a parte, precisi cosa ci sta dicendo: ci fu un tentativo preventivo di indirizzare la giustizia in un senso? Me ne guardo bene. Voglio solo dire una cosa: a quel tavolo c’era il procuratore più importante e influente d’Italia, Pignatone. C’ero io, il signore delle tessere della magistratura. C’era Fabrizio Centofanti, e sappiamo quali saranno in seguito le accuse a suo carico. C’era un convitato di pietra, il procuratore della Repubblica De Ficchy, nemico di Pignatone, che reclamava giustizia. E c’era un magistrato, Santoro, che avrebbe potuto essere a breve arbitro in una sentenza – il ricorso contro Prestipino – che interessava sia Pignatone sia De Ficchy. Benissimo, ora la invito a questo gioco: proiettiamo i commensali di quella cena nel futuro prossimo. Pignatone arresterà Centofanti determinando l’inizio dei miei guai; sempre Pignatone, quel giorno a me alleato, insieme a De Ficchy, quel giorno a lui nemico, decideranno la mia morte. Io non le sto parlando di reati, anche perché De Ficchy non fece ricorso al Consiglio di Stato. Le sto dicendo che il «Sistema» è una bestia complessa e imprevedibile, altro che cene dell’Hotel Champagne. E siamo ancora al primo problema. Quali saranno gli altri? Per trovare un equilibrio alla vicenda, nel gennaio del 2015 mi attivo fortemente per la nomina di Luigi De Ficchy a procuratore di Perugia. Ma non è tutto lineare. Pignatone infatti non la prende per niente bene, perché teme fortemente che la competenza di Perugia sui magistrati romani possa creare dei problemi alla luce del contenzioso tra De Ficchy e Prestipino. Anche in questo caso mi attivo per trovare un punto di equilibrio. Nei mesi successivi organizzo un incontro a tre: io, Pignatone e De Ficchy. Ci vediamo al bar Vanni, a Roma, zona Prati, una conversazione riservata che si svolge in una sala privata al piano superiore. Un carattere di riservatezza che dura molto poco, perché gli spostamenti di Pignatone, iperscortato, non possono passare inosservati. La pace siglata tra i due durerà anch’essa molto poco: di lì a breve la procura di Perugia aprirà un’indagine nei confronti di uno dei più stretti collaboratori del procuratore Pignatone. Si tratta di Renato Cortese, autore della cattura di Provenzano e capo della squadra Mobile di Roma, che insieme a Maurizio Improta, responsabile dell’ufficio immigrazione della stessa procura, nell’ottobre 2020 verrà condannato per la vicenda Shalabayeva, la frettolosa espulsione dall’Italia della moglie di un dissidente kazako. Indagine condotta da Antonella Duchini, in quel momento la più stretta collaboratrice di De Ficchy. Uno scontro frontale, ma in cui i colpi di scena non mancheranno: dopo poco tempo De Ficchy mi chiederà la testa della Duchini, e si riappacificherà con Pignatone.
Provo
a tirare le fila: lei quindi sostiene che nella magistratura le
decisioni
vengano prese fuori dalla sede istituzionale che è il Csm.
Sa quante
persone, per fatti del genere o per più banali «traffici di influenze»
in
politica e in aziende pubbliche e private sono finite sotto inchiesta, e
molte
di loro in galera?
Certo che lo so, ed è una vergogna. Noi però siamo al di là di questo,
nessuno ci controlla: cane non morde cane. E poi formalmente tutto è
regolare. Al Csm, e io ci sono stato, si fanno le audizioni per decidere
chi
promuovere e chi no, ma se ancora non fosse chiaro quelle audizioni
altro
non sono che un proforma. Me lo faccia dire chiaramente: chi le invoca
come la panacea di tutti i mali vive su Marte, perché i candidati
trovano
gente non solo distratta, ma spesso del tutto impreparata. Spiegare come
si
vuole organizzare una procura a persone che in una procura non hanno
mai
passato un giorno di lavoro è come… è come se un direttore di giornale
spiegasse a me come intende organizzare la redazione e qual è la linea
editoriale. Ma questo è il meno: chi viene audito spesso appartiene a
una
corrente, che in base agli accordi presi l’ha preparato su cosa dire e
non dire
per non rischiare di fare saltare l’intesa già raggiunta sul suo nome o
per
tentare, a seconda dei casi, di tenerlo in gioco. Sbrigata la formalità
delle
audizioni, ecco che entrano in campo le correnti, con i segretari che
iniziano
a interloquire con i membri del Csm. La partita vera è tutta lì. Ed è
una
partita, come in parte abbiamo già visto, senza esclusione di colpi, e
colpi
bassi. I casi delle procure di Palermo, Napoli e Milano, cioè delle più
importanti procure insieme a Roma, sono in questo senso esemplari. E io
questo sono in grado di ricostruirlo in maniera documentale.
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